Come ci si prende cura delle emozioni?
Che cos’è il sapere delle emozioni? E come ci si prende cura delle emozioni?
Iniziamo da questa tematica molto generale il nostro percorso nel mondo emotivo. Si tratta di un tema la cui trattazione richiederebbe un lavoro sterminato, nella misura in cui riguarda, direttamente o indirettamente, il sapere più profondo sull’uomo.
Offriamo qui, per evidenti ragioni, solo qualche flash o impressione che possa sollecitare ulteriori approfondimenti.
Se per “cura” delle emozioni ci riferiamo all’accezione con cui tale termine viene inteso nella psicoterapia come disciplina attinente al campo medico, dobbiamo dire che le emozioni non hanno bisogno di essere curate. Non sono inscritte, cioè, in una dimensione clinica o medica. Non sono malattie.
Certo, alcune emozioni, in situazioni di vita particolari, eccedono a tal punto la possibilità di essere governate da produrre sintomi di natura psichica e fisica. Questo accade soprattutto laddove si verifichino condizioni esistenzialmente drammatiche o laddove vi siano difficoltà personali nel leggere i propri stati emotivi e nel fronteggiare le difficoltà che la vita ci sottopone. Ma emozioni come paura, rabbia, senso di impotenza, dolore e via dicendo, per quanto spiacevoli, fanno parte dell’esperienza umana e non sono malattie.
Oggi pressoché tutti, in varia misura, si definiscono depressi, ansiosi, stressati. E, ovviamente, ciascuno ha le proprie legittime ragioni per utilizzare questi termini. Ma nel generalizzare vissuti personali e nell’interpretarli attraverso categorie cliniche e psicodiagnostiche assolute si corre il rischio di medicalizzare la vita e di perdere l’intero della sua esperienza (che comprende anche componenti angosciose e dolorose). In virtù di una lettura medica dell’emotività, che promette un benessere universale e identico per tutti, si perde l’irriducibile singolarità dell’esperienza umana (e quindi di quello specifico benessere o malessere, vissuto da quella persona lì e nessun’altra).
Insomma, la cosiddetta “pillola della felicità” (che funziona per tutti nello stesso modo) non è ancora stata trovata, né mai la si troverà (nella misura in cui la felicità non si dà in pillole).
Delle emozioni, dunque, non ci si prende cura come se fossero malattie, né – aggiungiamo ora – come se fossero oggetti universali, uguali per tutti. Ciascuno sperimenta a modo suo le emozioni “codificate” in una collettività (e quindi a disposizione di tutti e di ciascuno) in rapporto alla storia da cui proviene, ai modelli che ha avuto, a quanto è stato amato, incoraggiato, accompagnato, spronato. Non solo: ciascuno padroneggerà i propri vissuti anche in rapporto a come sì è reso protagonista della propria crescita personale, a come ha imparato a capire i propri stati, riconducendoli alla propria storia, a quanto sia in grado di far leva sulla proprie risorse e a battersi in vista di un maggior benessere. In fondo, è questo lo scopo di qualsiasi psicoterapia.
Ma come ci si prende cura delle emozioni, dunque?
Il benessere di ciascuno, anzitutto, è inscritto in una narrazione: il racconto che ognuno di noi dà di se stesso, delle relazioni che ha instaurato e del mondo in cui è immerso. La narrazione che produce maggior benessere individuale è quella che permette di “mettere insieme”, di integrare, di com-prendere (prendere insieme) e dare senso agli infiniti episodi che compongono una vita e di osservare come, quell’intera vita, abbia costruito l’emotività attraverso cui, oggi, si percepisce il mondo e se stessi. Per ognuno la sua, a partire dagli eventi e dalle relazioni della prima infanzia, fino all’attualità esistenziale di cui ciascuno è protagonista e a cui è chiamato a dare un senso.
Prendersi cura della propria emotività vuol dire, anzitutto, legittimarla: comprendere da dove originano alcune reazioni emotive e dare loro spazio. Dopo di che è possibile cercare di padroneggiare e plasmare aspetti di noi che ci vanno stretti e che non riusciamo a governare come vorremmo. Osservava Carl Rogers, fondatore della Psicoterapia centrata sulla Persona: “È nel momento in cui mi accetto così come sono che divento capace di cambiare”.
Vittorio Guidano – uno dei padri della psicoterapia contemporanea – nel corso delle sue lezioni sottolineava che benessere non è sinonimo di “vivere solo emozioni piacevoli”. Sarebbe troppo facile. Nella vita, purtroppo, capita di sperimentare lutti, perdite, fallimenti, costrizioni, eventi che intersecano le proprie linee di frattura e fragilità. Il massimo benessere per noi accessibile è quello che affonda le proprie radici nella possibilità di comprendere quello che stiamo provando e dargli un senso riconducendolo a noi, alla nostra storia e a quella della comunità alla quale apparteniamo. Benessere, quindi, come possibilità di padroneggiare i propri stati emotivi, per quanto – anche – spiacevoli, e di non percepirli come assoluta perdita di controllo o alienazione da sé. Condizioni, queste ultime, che sono i primi campanelli di allarme della necessità di rivolgersi ad uno specialista.