Quando è opportuno rivolgersi ad uno psicoterapeuta?
Non è molto chiaro che cosa si fa in uno studio di psicoterapia.
Ci si occupa dei sintomi? Li si interpretano? Si affronta tutta la storia di vita di una persona per capire da dove originano? Si offrono strategie per controllare e governare i sintomi stessi? Si fanno delle “chiacchierate” per “sfogarsi”? Un paziente (che si trova “per definizione” in una condizione di sofferenza e di fragilità ed ha dunque bisogno di conoscere il percorso che potrebbe aiutarlo a stare meglio) spesso è disorientato e perfino spaventato nel rivolgersi ad uno psicoterapeuta.
Mi è infatti capitato, in primi colloqui con pazienti che si sono rivolti a me, di sentire domande di questo tipo: “Non è che vengo a scoprire cose di me che mi faranno stare ancora più male?”, oppure “Un percorso psicoterapeutico mi farà essere diverso da come sono? E come sarà?”, o, ancora, “Come è possibile stare meglio semplicemente “parlando” delle cose che mi accadono o che mi sono accadute? Ma funziona?”
Tutte domande legittime alla luce del fatto che, anzitutto, chi si rivolge ad uno psicoterapeuta – come abbiamo detto – è in una condizione di sofferenza, quindi di fragilità e vulnerabilità. È dunque opportuno che si tuteli da tutto ciò che potrebbe produrre ulteriore dolore. In secondo luogo è indispensabile osservare che il panorama della psicoterapia è variegato, complesso, multiforme, con orientamenti che hanno visioni anche molto differenti tra loro rispetto a che cosa sia l’uomo, quale sia la sua “essenza”, come sia opportuno occuparsi della sua salute e, in ultima istanza, della sua felicità. Ma come ci si può orientare in un ginepraio così articolato?
È dunque comprensibile che, prima di rivolgersi ad uno psicoterapeuta, una persona si chieda se sia opportuno o meno farlo. Il modo più semplice per rispondere a questa domanda è affidarsi alla psicodiagnostica fai-da-te, ossia cercare di “codificare” i propri sintomi (magari guardando su internet) e compiere una sorta di autodiagnosi della propria condizione: “soffro di ansia”, “sono depresso”, “ho la fobia sociale”, “sono un dipendente affettivo”, e via dicendo. Inevitabilmente (e legittimamente) si andranno a cercare i possibili rimedi a quel tipo di patologie e ci si avventurerà in un’infinita pletora di soluzioni: dagli psicofarmaci ai fiori di Bach, dall’omeopatia alla psicoterapia, dallo yoga alla fitoterapia, dal counseling alla mindfulness alla consulenza filosofica, fino ai consigli del vicino di casa che ha “sofferto della stessa malattia”. A questo punto il “ginepraio” di cui parlavamo poco sopra è diventato un vero e proprio labirinto in cui è pressoché impossibile orientarsi e imboccare qualsivoglia direzione.
Alla luce di tutto questo mi sembra sensato provare una strada differente, da imboccare prima di entrare nel labirinto senza uscita. La potremmo riassumere in questi termini: laddove una persona percepisca un disagio psicologico ed esistenziale profondo (a prescindere dal tipo di disagio, e quindi di sintomatologia) è opportuno che ne parli con uno specialista che a queste tematiche ha dedicato studi e professionalità. Un confronto, lo potremmo indicare in questo primo contatto, in cui si valuti insieme, anzitutto, che cosa sta succedendo. In seconda battuta si decide (sempre insieme) come sia opportuno occuparsene. Nessuna forzatura, nessuna indicazione, nessuna interpretazione, nessuna diagnosi, almeno in questa fase. Solo un’opera di osservazione, ascolto e chiarificazione da compiere insieme. Non è infatti detto che l’esito di un colloquio psicologico sia l’indicazione di una psicoterapia.
Certo, è opportuno cercare con cura e attenzione la figura con cui compiere questo tipo di operazione, perché sarà determinante. Ed è altrettanto importante dare valore al grado di sintonia, vicinanza, comprensione che si percepisce già nel primo colloquio con lo psicoterapeuta (o la figura che si sarà scelta): per compiere un lavoro così profondo è indispensabile sentirsi a proprio agio, essere accolti e compresi, percepire un’attenzione non giudicante che dispone all’apertura e al dialogo. Si tratta di condizioni preliminari indispensabili per compiere qualsiasi tipo di lavoro insieme. Senza la costruzione (e quindi la percezione) di questo terreno comune di dialogo da abitare insieme non si può dare nessuna chiarificazione né alcun tipo di aiuto.