Alla ricerca della felicità
In questa nostra puntata concediamoci una piccola pausa rispetto al tema dell’evitamento, sul quale abbiamo iniziato a riflettere nello scorso intervento. Parliamo invece di felicità.
La felicità è il tema dei temi. Tutte le epoche, le culture, le civiltà, ognuna a proprio modo, si sono confrontate con il dramma della condizione umana, consapevole del dolore e della propria fine, e ne hanno cercato una via d’uscita. Nietzsche – come abbiamo già avuto modo di ricordare – è arrivato a dire che tutta la conoscenza umana, a ben guardare, non è che il tentativo di dare un senso alla sofferenza, e quindi, indirettamente, di rendere accessibile una qualche forma di felicità.
In questo nostro piccolo spunto di riflessione non cercheremo di offrire né una sintesi né una chiave di lettura a un tema così vasto e complesso. Tenteremo, piuttosto, di abbozzare una modalità operativa che renda possibile per ognuno di noi chiedersi se è felice, tratteggiare una risposta e, soprattutto, una possibile via per il suo perseguimento.
Nella pratica psicoterapeutica è frequente che dopo i primi colloqui, quando i sintomi sono diventati più gestibili e si cerca di individuare un possibile percorso da fare insieme, la richiesta del paziente suoni grossomodo così: “Mi aiuti ad essere felice, o almeno sereno”. La prima operazione che facciamo insieme è dare un senso individuale, unico e specifico a questo tipo di richiesta. Ossia rigirare una domanda così generica e universale, che prescinde dalla biografia individuale, su un piano strettamente personale: “Che cosa significa per lei essere felice?”.
Domanda elementare, se volete, e quasi scontata, ma che spesso abbiamo disimparato a farci, indaffarati come siamo a tamponare le mille richieste di una quotidianità impersonale e anonima. Che cosa significa per me essere felice? Detto in altri termini, che cosa dà senso alla mia vita? Per che cosa vale la pena faticare, combattere, desiderare, amare? Quali sono le priorità che mi do? E infine, in rapporto a che cosa l’uso che faccio del mio tempo mi permette di dire che è tempo speso bene?
La vita non può semplicemente essere “sicura”, deve avere un senso. Già Freud aveva ben chiaro questo aspetto quando diceva che “L’umanità ha sempre barattato un po’ di felicità per un po’ di sicurezza”. E la felicità, per come l’Occidente ha declinato questa esperienza emotiva, è strettamente intrecciata con il dare e l’avere un senso. “La felicità è quella vita che realizza nella maturità il sogno della giovinezza”, ama ricordare il filosofo Carlo Sini.
Cosa tutt’altro che semplice, sia nella realizzazione concreta che nella possibilità di vedere chiaro ciò che ci muove. Quasi mai, infatti, quelli che diciamo essere i nostri obiettivi e ciò che ci raccontiamo dare senso alla nostra vita è la motivazione che ci muove nel profondo. Ed è in questo scollamento inavvertito che spesso si nasconde il disagio esistenziale e psicologico (ma su questo avremo occasione di tornare in rapporto al meccanismo dell’autoinganno…).
Permettetemi un’ultima parentesi a chiusura di questa piccola riflessione, che, come tutto il suo contenuto, può essere condivisa o meno. Siamo abituati a inseguirla, la felicità, come se fosse sempre di là da venire, in rapporto a un obiettivo spesso definito sulla base di istanza sociali e collettive (una certa posizione sociale, un tipo di riconoscimento anziché un altro, uno status desiderabile “per tutti”). Declinata su un piano strettamente personale, e riferita a un vissuto unico, la felicità suona spesso molto più vicina di quanto non possa apparire se osservata attraverso categorie astratte e universali, e il suo approssimarsi appare come un lasciare che accada più che un combattere per il suo raggiungimento.