Dottore, soffro di stanchezza
A ridosso dell’estate si moltiplicano le pubblicità di integratori di varia natura che promettono effetti miracolosi sulla “stanchezza”. Con il caldo – com’è esperienza comune – le energie si affievoliscono e diventa più faticoso tenere il ritmo di altre fasi dell’anno. Anche perché – è opportuno ricordare – si arriva da un lungo periodo carico di impegni, lavoro, fatiche di varia natura, e un certo grado di stanchezza è comprensibile e legittimo.
Laddove, invece, si manifestino sintomi conclamati è opportuno rivolgersi ad uno psicologo e psicoterapeuta per una corretta diagnosi e terapia
Eppure, a cominciare proprio dalle pubblicità da cui siamo bombardati, si parla della stanchezza come se fosse una specie di malattia. “Soffri di stanchezza!?” – è la domanda più ricorrente nei messaggi pubblicitari. E la risposta suggerita sta nell’assunzione di qualche tipo di sostanza integrativa per uscire da questa “condizione pseudo-patologica”. Questo tipo di “lettura” della stanchezza sta entrando prepotentemente anche nel senso comune, tanto che, pian piano, nell’immaginario collettivo, quando si accusa un po’ di fatica si pensa subito ad un “rimedio”.
Ma, a ben guardare, la stanchezza non è una malattia e il rimedio alla stanchezza è, semplicemente e naturalmente, il riposo. Non si può tenere lo stesso ritmo (spesso forsennato) in tutte le condizioni, momenti dell’anno, fasi della vita. Il nostro corpo e la nostra mente (che sono tutt’uno) ci danno indicazioni preziose sullo stato fisico ed emotivo che stiamo attraversando, ed è opportuno che ne teniamo conto. Il che significa osservare con attenzione che cosa ci “appesantisce”, dove è opportuno o addirittura necessario lasciar correre, che cosa ci può restituire, in termini di motivazioni, entusiasmo, voglia di fare, qualche “tacca” di energia in più.
Salvo i casi in cui vi sia un deficit manifesto e clinicamente significativo di alcune componenti nell’organismo (vitamine, proteine, sali minerali in primis), oppure vi siano problemi metabolici e difficoltà ad assimilare alcune sostanze, non vi è nulla da “integrare”. Aggiungere benzina che c’è già ad un motore stanco non serve a farlo girare meglio. E’ opportuno rallentare o formarsi un attimo per farlo raffreddare, prima di “ingrippare”. Il problema di tutto il mondo occidentale è la sovralimentazione, non la carenza di cibo e di risorse alimentari, quindi prima di “aggiungere” è opportuno osservare se vi è una carenza, altrimenti il tipo di intervento che si opera non avrà nessuna efficacia (se non per l’intervento del potentissimo “effetto placebo”, di cui avremo occasione di parlare nei prossimi interventi).
Si tratta di un principio semplice e basilare che ci dovrebbe orientare nella considerazione di tutti gli aspetti che compongono il nostro benessere: ascoltarci prima di agire e capire ciò di cui abbiamo bisogno. Dopodiché intervenire nella direzione di soddisfare quelle necessità che il nostro corpo e la nostra mente ci segnalano.
C’è poi una “stanchezza” di tutt’altra natura, che si manifesta con l’azzeramento di qualsiasi tipo di energia fisica e mentale. In questo caso siamo di fronte ad un processo ben più profondo, di cui è visibile solo l’effetto ultimo e più macroscopico, la cosiddetta punta dell’iceberg. In queste circostanze capire che cosa stia succedendo diventa imprescindibile: ciò che è in gioco non è più la fisiologica fatica rispetto a ciò che per noi ha senso fare (anche se, a tratti, faticoso), ma, viceversa, è in gioco la parziale perdita di senso di ciò che facciamo.