Dottor Enrico Bassani, Psicologo
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Il sottile confine tra accettazione e rassegnazione

accettazione rassegnazione

Come abbiamo già avuto modo di osservare, ci sono alcuni termini su cui è determinante fare chiarezza quando si decide di compiere un percorso su di sé. Attorno a quei termini, e alle “disposizioni” che inducono, si giocano infatti partite importanti rispetto al benessere individuale. La parola su cui quest’oggi concentriamo la nostra attenzione è “accettazione”, contrapposta a “rassegnazione”, con la quale viene spesso erroneamente equiparata. Si tratta di un termine fondamentale nella misura in cui designa la possibilità di “fare pace” con alcuni aspetti di sé con i quali è più difficile convivere e scendere a patti.
Prendiamo avvio da una celebre citazione di Carl Rogers, uno dei padri della cosiddetta “psicologia umanistica”. La frase da cui partiamo è la seguente: “E’ nel momento in cui mi accetto così come sono che divento capace di cambiare”. Sembra quasi una contraddizione in termini: accettazione, in una lettura superficiale, suggerisce infatti una dimensione di stasi, di pausa, quasi di quiete. Rogers la associa invece al cambiamento e al divenire, come se fosse una pre-condizione del cambiamento stesso. Ed in effetti, osservando in profondità, non può che essere così.
Accettare alcuni aspetti di sé significa infatti “farci i conti”, nel senso di ricondurli alla propria storia, al modo in cui si sono strutturati nell’esperienza individuale, nelle relazioni con gli altri, nel proprio modo di vivere emotivamente gli eventi della vita. Accettarli nel senso di considerarli parte del proprio bagaglio autobiografico e personale, di riconoscerne l’origine, che è diventata poi, a piccoli passi, una “lettura emotiva” del mondo anche nell’attualità. Accettare vuol dunque dire anzitutto non combatterli, non ingaggiare una guerra civile tutta interna a se stessi tra ciò che si prova e ciò che si vorrebbe o dovrebbe provare.
Ricordo il caso di un professionista che si era rivolto a me perché non riusciva a parlare in pubblico, neanche nelle riunioni tra colleghi. Gli prendeva un’ansia tale da iniziare a sudare, se costretto ad intervenire, e balbettare fino ad andare completamente in confusione. Questo aspetto di sé, evidentemente molto limitante, lo faceva arrabbiare e demoralizzare al punto tale da azzerare qualsiasi sua risorsa. Per come la situazione si era costruita, eravamo di fronte a una sorta di “muro contro muro” tra l’ansia di esporsi in pubblico e la non-accettazione di questo aspetto di sé, in cui ad avere la meglio, inevitabilmente, era il “sintomo”, ossia l’ansia, e la conseguente rabbia, auto-denigrazione, squalificazione di sé.
Imboccare la strada dell’accettazione significa anzitutto cercare di capire che cosa è in gioco in quegli episodi: che effetto ha il giudizio degli altri sulla propria immagine di sé; quanto il diretto interessato “si permette” di sbagliare; in che circostanze, nella sua storia, ha subito il giudizio altrui, e da parte di quali figure; che cosa prova (nei minimi dettagli emotivi e “fisici”) quando commette un errore o pensa di poterlo commettere… Rendere chiaro tutto questo significa anzitutto “relativizzare” il problema, collocarlo in una “storia di vita” e nei suoi temi – in questo caso il tema del giudizio. In seconda battuta significa rendersi conto che il sintomo non è un dato strutturale immodificabile, ma cambia e si articola in rapporto a tanti fattori, soprattutto di natura relazionale. Lo si può quindi padroneggiare e, in qualche misura, plasmare in rapporto alle circostanze che si incontrano. Infine, il sintomo è la punta dell’iceberg, è l’estrema espressione di una difficoltà che affonda le proprie radici altrove (nel nostro esempio, in quell’enorme bacino che il senso comune generalmente indica con il termine “autostima”).

Accettazione è la parola che meglio riassume tutto questo lavoro preparatorio da cui non può che emergere il cambiamento, proprio nella misura il cui cambiano i fattori in campo e la relazione tra essi. Siamo dunque agli antipodi della rassegnazione, disposizione che, al contrario, esprime al massimo grado uno stato di impotenza e impossibilità d’azione.

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