VORREI FARMI AIUTARE, MA CHE PAURA!
Gentile dottor Bassani,
dopo mille resistenze sono a chiederle un consulto per stati d’ansia che mi porto appresso da circa 15 anni, o che forse sono nati con me. Vorrei venire a parlargliene ma ho mille dubbi e paure. La più forte è relativa al fatto che lei possa dirmi che sono grave o addirittura irrecuperabile. Insomma, ho paura che parlare con un professionista voglia dire diventare automaticamente “malati” e questa cosa mi terrorizza. Soprattutto ho paura che lei, o chiunque esperto del settore, mi dia delle interpretazioni del mio vissuto che mi “condannano” a una certa diagnosi. Del tipo: “Se fa questa cosa qui vuol dire che lei soffre di questa malattia…” e via dicendo .
Mi può gentilmente chiarire questo punto?
Grazie e (lo spero) arrivederci.
Maurizio
Gentile signor Maurizio,
mi sembra di poter capire le paure di cui parla. Rivolgersi ad uno psicologo è tutt’altro che semplice e comporta una serie di passaggi emotivi e mentali spesso tortuosi e tormentati. Non è facile chiedere aiuto; non è facile chiedere aiuto a uno sconosciuto; non è facile affidare le parti più intime dell’esistenza a un professionista che ha i suoi canoni mentali, che emette diagnosi, la cui parola ha una autorità di carattere “medico”. I classici timori di chi inizia un percorso psicologico assumono spesso questa forma: “E se poi mi dice che sono depresso e che ci vorranno 10 anni per uscirne…”, oppure “Se mi dice che ho conflitti irrisolti con mamma di cui non ero neppure consapevole…”, “E se mi dice qualcosa di me che non riconosco e che mi fa paura?”.
Sono timori comprensibili e spesso legittimi, alimentati anche da alcuni luoghi comuni sulla psicologia che “interpreta” a tutti i costi e scopre aspetti reconditi e spesso sconvolgenti delle persone. In realtà, almeno nell’approccio terapeutico in cui mi riconosco, al primo punto c’è il tentativo di entrare in sintonia, di capirsi. Il terapeuta cerca di entrare in punta di piedi nel vissuto della persona che chiede aiuto. Un ingresso delicato, quasi come se ci vi muovesse in una stanza piena di cristalli preziosi, col timore di far cadere qualcosa. Nessuna interpretazione a partire da chissà quale verità rivelata, ma piuttosto un riflettere insieme, un cercare di andare in profondità, di dare un senso e integrare aspetti della persona che spesso sembrano totalmente incoerenti, ma che ad un’analisi più profonda trovano la loro ragion d’essere.
Poi ci può stare anche una diagnosi di riferimento, che serve più al terapeuta che al paziente. Diagnosi che non va nella direzione della definizione della patologia, ma offre un quadro di riferimento in cui collocare il sintomo. Una persona che ha paura di prendere l’aereo posso dire che ha aspetti fobici, ma questo, di per sé, serve poco al terapeuta e per nulla al paziente. E’ nella relazione terapeutica che si gioca la partita, che si comprende il senso del sintomo, dove c’è, e l’origine dello stare male. Un lavoro che si fa insieme, in un rapporto di alleanza. Ed è lì che si sperimentano nuove modalità che, da soli, sono difficili da individuare.
Grazie a lei per avermi offerto l’opportunità di chiarire questi concetti centrali.
Cordialità.