Si vive una volta sola!
“Si vive una volta sola!”. Quante volte l’abbiamo detto! E quante volte l’abbiamo sentito dire!
Spesso per legittimare piccoli-grandi scelte funzionali al nostro benessere immediato, anche se portatrici di qualche “effetto collaterale”: il dolce a cui avremmo potuto rinunciare a fine cena ma che invece ci siamo concessi; quella vacanza costosa, un po’ sopra le nostre possibilità economiche, della quale non abbiamo saputo o voluto fare a meno; quello sfizio o quel capriccio di cui eravamo certi che ci saremmo, per qualche aspetto, pentiti, ma al quale, nel momento in cui ci si è posto di fronte, non abbiamo saputo resistere.
Del resto – diciamo – si vive una volta sola. Perché privarsi di tanti piccoli ingredienti della quotidianità che restituiscono un piacere, un sorriso, un divertimento? Ed è bene che così sia, non c’è dubbio. Purché – come ammonivano i greci – secondo misura.
In questi giorni di drammatica esposizione alla morte, e di virtuosa, quasi eroica, abnegazione di tanti amici, conoscenti e sconosciuti (medici, infermieri, volontari) che si mettono in prima linea, rischiando, per salvare la vita ad altrettanti sconosciuti, quell’espressione è però risuonata in modo differente in me.
Anche in rapporto a due piccoli eventi, apparentemente casuali e tra loro slegati, che ho vissuto in questi giorni.
Il primo è il seguente. Nella “reclusione” alla quale siamo chiamati, “per il bene di tutti e di ciascuno”, mi è capitato di rivedere un documentario su Giovanni Falcone, che ne ripercorreva le scelte e la vita. In un passaggio centrale, la sorella Maria racconta di un momento di confronto particolarmente intimo e toccante con suo fratello. Alla luce delle minacce che quotidianamente Giovanni riceveva, delle restrizioni a cui era sottoposto per proteggersi, alla vita in trincea a cui era costretto, Maria gli chiese: “Ma, Giovanni, perché? Perché lo fai?” – riferendosi alla guerra, ormai senza ritorno, che aveva ingaggiato contro la mafia. E lui rispose sardonicamente, con quel “sorriso a metà” che spesso abbiamo visto abbozzato sul suo volto: “Si vive una volta sola!”.
Eccola che ritorna, quell’espressione, in tutt’altro contesto e ammantata di tutt’altro significato.
Il secondo aneddoto è legato ad una ricorrenza: la scorsa settimana cadeva il quarantesimo anniversario della morte di Gianni Rodari, un gigante della letteratura per bambini. Mi è tornato in mente un passaggio del suo “Libro dei perché” a cui sono particolarmente affezionato. Il “perché” a cui cercare risposta è il seguente: “In cosa consiste la felicità?”. E questa è stata la risposta di Rodari: “Per essere sicuro di non sbagliare a rispondere, sono andato a cercare in un grosso vocabolario la parola “felicità” ed ho trovato che significa “essere pienamente contenti, per sempre e per un lungo tempo”. Ma come si fa ad essere “pienamente contenti”, con tutte le cose brutte che ci sono al mondo, e con tutti gli errori che facciamo anche noi, ogni giorno dell’anno? Ho chiuso il vocabolario e l’ho rimesso in libreria, con molto rispetto perché è un vecchio libro e costa caro, ma ben deciso a non dargli retta. La felicità dev’essere per forza qualche altra cosa, una cosa che non ci costringa ad essere sempre allegri e soddisfatti (e un po’ stupidi) come una gallina che si è riempita il gozzo. Forse la felicità sta nel fare le cose che possono arricchire la vita di tutti gli uomini; nell’essere in armonia con coloro che vogliono e fanno le cose giuste e necessarie. E allora la felicità non è semplice e facile come una canzonetta: è una lotta. Non la si impara dai libri, ma dalla vita, e non tutti vi riescono: quelli che non si stancano mai di cercare e di lottare e di fare, vi riescono, e credo che possano essere felici per tutta la vita”.
Ecco allora, sulla scorta di questi due aneddoti, che quel “si vive una volta sola” assume tutt’altra connotazione, anche alla luce della fase storica che stiamo attraversando. Proviamo ad esprimerci in questi termini: è assolutamente sensato assecondare il “principio di piacere”, come si esprimerebbero gli psicanalisti, o avere una elasticità cognitiva capace di garantire un adattamento alle circostanze, come direbbero psicoterapeuti cognitivisti, (ossia concederci quel dolcetto a fine cena…) ma non è quella la partita decisiva per la felicità.
È, cioè, opportuno che non siamo troppo intransigenti con noi stessi e con gli altri, e che, quindi, ci concediamo quelle piccole libertà che il senso comune associa all’espressione “Si vive una volta sola”. È però altrettanto opportuno tenere sempre presente l’ammonimento tanto di Falcone quanto di Rodari (come di tantissimi altri maestri della nostra tradizione): alla vita siamo chiamati a dare un senso, qualsiasi esso sia (o quasi). E nell’avvicinamento a quel senso (anche a costo di un pericolo, addirittura estremo) si nasconde la felicità, che non è né uno stato emotivo da preservare, né una condizione da possedere, né – tantomeno – uno “stato di natura” scontato per l’uomo; bensì è una lotta (con le parole di Rodari) e una conquista da rinnovare.
Anche noi psicologi e psicoterapeuti, spesso abbagliati dalla verità assoluta delle nostre tradizioni scientifiche, ce ne dimentichiamo, per i nostri pazienti e per noi stessi. Queste condizioni di emergenza sono l’occasione per farcene, ancora una volta, carico, per quanto ci è possibile.