Coronavirus: psicosi, legittima paura e senso di responsabilità
Adesso è chiaro: tutti a casa. Per il bene di tutti e di ciascuno.
La chiarezza della comunità scientifica che abbiamo invocato nello scorso intervento è arrivata in modo cristallino: siamo di fronte ad una pandemia. Il mondo intero deve proteggersi da un virus molto contagioso che ha già ammorbato tutti i continenti e rispetto al quale, al momento, non c’è un vaccino né cure specifiche efficaci. Il COVID-19, fortunatamente, ha un indice di mortalità più basso rispetto ad altri virus (come il terribile Ebola) ma i suoi effetti sul sistema respiratorio possono essere molto gravi, soprattutto in individui soggetti ad altre patologie o immunodepressi. L’Italia, in questa fase, e la Lombardia in particolare, è sulla soglia di un collasso del sistema sanitario dovuto ad un numero di richieste ed accessi alle strutture di cura superiore a quelli che il sistema può reggere.
Di fronte al Coronavirus stiamo vivendo una legittima paura collettiva legata ad un “esame di realtà”
Non è in discussione nessuna “psicosi”, dunque, ma si sta compiendo un semplice “esame di realtà” (per usare una formula cara agli psicoterapeuti e in particolare agli psicanalisti). Ognuno di noi prova una legittima paura per un nemico subdolo, invisibile e potenzialmente molto pericoloso. Paura che può raggiungere punte di angoscia – come abbiamo detto nello scorso intervento (chiamandole gergalmente “psicosi”) – proprio per le caratteristiche del pericolo al quale siamo esposti: non si può vedere, non è affrontabile (se non sottraendosi alla sua esposizione), non è prevedibile né controllabile.
Legittima paura, dunque, la cui funzione è proprio quella di proteggerci. Ci fa paura ciò che può rappresentare un pericolo (per noi, per i nostri cari, per la comunità intera) e da cui è opportuno tenersi a distanza o scappare. Ed il Coronavirus è un effettivo pericolo. Sarebbe preoccupante constatare la reazione opposta a quella che stiamo osservando: l’insensibilità o l’indifferenza ad un agente esterno che potrebbe farci del male. In tal caso si parlerebbe infatti di semplice “incoscienza” (non essere consapevoli del pericolo in agguato) o addirittura di un disturbo della personalità legato alla difficoltà nella percezione del pericolo o all’incapacità di provare empatia ed immedesimazione. Quel che è certo è che non si potrebbe sicuramente parlare di “coraggio”. Il “coraggio”, infatti, non è l’assenza di paura, ma la capacità di padroneggiare la paura (anche di fronte ad un pericolo effettivo) in vista di un senso individuale o collettivo superiore.
Sono coraggiosi i medici, gli infermieri e i volontari che si espongono al pericolo di essere contagiati per un’azione che ha senso per loro compiere in vista di un bene comune (contenere l’epidemia e salvare vite umane). Chi non osserva le indicazioni delle autorità sanitarie e politiche per dimostrare che non ha paura del Coronavirus non è coraggioso, ma semplicemente incosciente.
Il senso di responsabilità, verso sé stessi e verso gli altri, è il fattore che in questa drammatica fase è opportuno invocare per orientare i comportamenti di tutti. “Io resto a casa” è l’hashtag sottoscritto dai personaggi più in vista dello spettacolo, al quale ha fatto eco “Distanti ma uniti”, sottoscritto da altrettanti volti noti del mondo sportivo, fino a “Io resto in corsia, tu resta a casa”, al quale ha dato avvio un’infermiera del Policlinico di Bari.
A me personalmente colpiscono i post-it e i bigliettini che compaiono negli angoli più impensati anche della nostra città, attaccati ai pali, sui muri, sulle saracinesche abbassate degli esercizi commerciali chiusi: “Tutto andrà bene”.
E sarà sicuramente così. Ma quanto durerà dipende da noi, “da tutti e da ciascuno”, come ci ha insegnato a dire Hegel.
Siamo una comunità (sia in senso globale che locale) e questo è il momento di farsi carico della coraggiosa responsabilità che ci aspetta in qualità di cittadini (rispettosi delle leggi e delle norme), in qualità di persone (titolari di una responsabilità individuale), ma soprattutto in qualità – semplicemente – di donne e di uomini, capaci di partecipare di un destino comune ed esserne in qualche misura artefici.
Quel “Tutto andrà bene” appeso qua e là nelle città di tutta Italia mi ricorda un’espressione che Gianni Liotti, grande maestro di psichiatria e psicoterapia, usava con i propri allievi (tra i quali io stesso, giovane psicoterapeuta in formazione). Quando spiegava il senso e la disposizione che qualsiasi psicoterapia è chiamata, anzitutto, a trasmettere al paziente, la sintetizzava in questi termini: “Insieme ce la possiamo fare”.
E forse, in questo drammatico momento, non c’è espressione migliore per fare in modo che tutti noi ci possiamo sentire reciprocamente vicini (seppur tra noi isolati), uniti (seppur fisicamente soli), e coraggiosamente responsabili di un destino che tutti ci accomuna.