L’emotività come puro spettacolo
L’impatto più diretto ed immediato che l’avvento del mondo digitale ed il suo ingresso nella quotidianità di ciascuno ha avuto è duplice – abbiamo detto nello scorso intervento – Da un lato ha segnato l’affermarsi del primato dell’intelletto sul mondo emotivo, immaginativo e sentimentale dell’uomo; dall’altro ha dato luogo ad una paradossale (ed apparentemente contraddittoria) esposizione dell’emotività come puro spettacolo e oggetto di morbosa curiosità.
Quest’ultimo aspetto, di cui ci occuperemo oggi, è perennemente sotto gli occhi di tutti. Nei profili social che condividiamo, animiamo e di cui ci nutriamo quotidianamente la vita di ciascuno è esposta e concessa allo sguardo altrui. Dalle foto della cena con gli amici alle massime esistenziali, dai video che immortalano momenti di affetto con le persone più care ai drammi personali, dall’ultimo paia di scarpe acquistato al credo politico, fino all’intimità della vita affettiva, e persino sessuale… Tutto è pubblico.
Certo, in modo differente da persona a persona, in rapporto alla sensibilità individuale, ma ciò che la rete offre in termini di condivisione di contenuti ha un potenza tale da cambiare il senso stesso delle parole “condividere” e “intimità”.
Da un punto di vista etimologico “intimo” significa “Ciò che è più interno, profondo, radicato nell’animo personale”. Gli aspetti più intimi della persona, proprio nella misura in cui riguardano il nucleo più delicato, prezioso, fragile, vulnerabile del suo animo, è opportuno che vengano preservati dallo sguardo anonimo di chiunque. Devono essere custoditi e l’ingresso in questa parte più profonda dell’animo è necessario venga riservato alle persone di cui si ha una fiducia assoluta e da cui si è certi di non poter essere feriti, ridicolizzati, giudicati, banalizzati, delegittimati. Solo in un rapporto molto profondo e quasi esclusivo ha senso un disvelamento e – appunto – una condivisione di ciò che si è nell’intimo.
Eppure, come osservava il filosofo Gunther Anders già nel 1980,
“Il mondo è diventato una mostra, un’esposizione pubblicitaria che è impossibile non visitare perché comunque ci siamo dentro”.
Con l’avvento dei social-media questo aspetto è diventato sistematico ed irrefrenabile: esserci ed apparire sono diventati quasi sinonimi, al punto che, pur di uscire dall’anonimato e dal terrore di “scomparire”, ciascuno è disposto a mettere in mostra la propria interiorità, e – in ultima analisi – è disposto a perderla.
Lo slogan attraverso il quale il senso comune legittima questa operazione di svilimento e mercificazione delle componenti più profonde dell’identità personale suona grossomodo così: “Non ho nulla da nascondere né di cui vergognarmi”. Ma la volontà di preservare alcune parti di sé dallo sguardo di chi non si conosce in profondità non ha nulla di sospetto o di vizioso. È una forma di autotutela e, soprattutto, un modo per dare valore e dignità a sé e agli altri.
La libertà non sta nella possibilità infinita di un’esposizione virtualmente illimitata di qualsiasi contenuto personale. La libertà, viceversa, sta nella scelta di che cosa rendere pubblico e di che cosa, invece, preservare dallo sguardo altrui proprio perché ha bisogno di essere custodito e tutelato. Come osserva Christopher Lasch ne “L’Io minimo”, la cosiddetta libertà di scelta non sta né nell’astensione dalla scelta, né nella perenne revocabilità di qualsiasi scelta (ossia il fatto che chiunque può tornare sui suoi passi in qualsiasi momento). Essere liberi vuol dire anzitutto saper discriminare, in vista di ciò che ha senso fare, e, in seconda battuta, sapersi far carico di tutte le conseguenze che le proprie scelte comportano.
Ecco dunque che è opportuno, per ciascuno, uscire dalla “paura dell’anonimato” indotta dai social media che oggi costituiscono il nostro ambiente. Dobbiamo conoscere a fondo questi strumenti che usiamo e che – simmetricamente – ci usano, in modo da poterli padroneggiare, per quanto possibile.
Come diceva Anders, in una celebre citazione:
«Cambiare il mondo non basta. Lo facciamo comunque. E, in larga misura, questo cambiamento avviene senza la nostra collaborazione. Nostro compito è anche ďinterpretarlo. E ciò, precisamente, per cambiare il cambiamento. Affinché il mondo non continui a cambiare senza di noi. E, alla fine, non si cambi in un mondo senza di noi».