Perché crediamo alle fake news?
L’interessante ed avvincente mostra sulle fake news allestita da Lecconotizie.com in piazza Cermenati ci offre l’occasione per affrontare alcuni aspetti psicologici centrali in questo tipo di fenomeno. Potremmo sintetizzare il tema di questo nostro intervento con una domanda molto diretta: perché crediamo alle fake news? Si tratta, ovviamente, di un tema molto dibattuto oggi. Attorno alla correttezza delle informazioni che circolano su tutti gli strumenti mediatici (internet in testa) si giocano infatti importanti battaglie culturali, economiche ed anche politiche. Avere il controllo dell’informazione (e poterla manipolare a proprio uso) è, oggi più che mai, sinonimo di potere.
Storicamente il fenomeno fake news, in ambito psicologico, è sempre stato rubricato come effetto dei cosiddetti bias cognitivi, ossia errori strutturali del ragionamento umano. Il presupposto è che tutti noi ci creiamo opinioni sulla base di percezioni deformate e talvolta erronee della realtà anziché su principi logici e probabilistici.
Citiamo i più importanti di questi “errori” fornendo qualche esempio. Il più potente di tutti è il Bias di conferma, ossia la tendenza quasi automatica di ritenere più corrette quelle informazioni che confermano ciò che già sappiamo (o in cui crediamo). Legati ad esso sono il Bias della frequenza e il Bias di gruppo. Il primo ci porta a sovrastimare la frequenza delle esperienze e delle circostanze di cui noi stessi siamo protagonisti. Una donna incinta, per fare un esempio, noterà molte più carrozzine di quanto non accadesse prima di trovarsi in quella condizione, e quindi sovrastimerà la presenza di tutti quegli oggetti che hanno a che fare con la sua condizione di mamma. Il Bias di gruppo risponde allo stesso principio, ma esteso a una dimensione collettiva anziché individuale: si tendono a ritenere più fondate, e quindi più autorevoli, le informazioni “condivise”. È il principio di funzionamento dei “like”: una notizia, un post o qualsiasi contenuto mediatico che sia contrassegnato da più “pollici in su” è implicitamente ritenuto più autorevole di uno che ne ha meno.
La tradizione psicologica, soprattutto di matrice cognitivista, ha esteso indefinitamente questo tipo di indagini relative agli “errori di ragionamento” andando a scovare infinite “scorciatoie del pensiero”. Citiamo le più note, oltre a quelle già nominate sopra: il bias di ancoraggio (tale per cui rimaniamo “ancorati” alle nostre convinzioni a prescindere dalle “falsificazioni”), il bias dello status quo e il bias della negatività (strategie finalizzate a fare in modo che tutto rimanga come è perché le novità ci destabilizzano), la Fallacia di Gabler (per cui rileggiamo gli eventi che accadono a partire dalla nostra storia e dal nostro passato), il bias dello sguardo selettivo e la negligenza di probabilità (per cui “vediamo le cose che vogliamo vedere” e sovrastimiamo la loro frequenza contro qualsiasi legge logica o probabilistica), e via dicendo.
La ricerca contemporanea, dopo il più marcato interesse verso il mondo emotivo che si è verificato soprattutto a partite dagli Anni Novanta, offre un’altra chiave di lettura, che si sovrappone a quella cognitivista. La sintetizziamo in questi termini:
tutti gli “errori di ragionamento” di cui siamo involontari protagonisti hanno una matrice emotiva più che cognitiva.
Si manifestano nell’ambito del ragionamento, ma ciò che li muove ha a che fare con l’emotività.
L’esigenza imprescindibile di ogni essere umano è anzitutto quella di essere visto, riconosciuto e amato; in seconda battuta di essere rassicurato rispetto ai pericoli che corre per il semplice fatto di essere al mondo. Sono percezioni indispensabili per ciascuno di noi anche il sentirsi adeguato in rapporto ai compiti che ci aspettano, apprezzato dai propri simili per le proprie capacità, e infine legittimato rispetto al proprio mondo emotivo e a ciò che prova.
Siamo esseri emotivi, presi nel vortice della vita (ognuno nella propria), più che esseri razionali. E le “deformazioni” e gli “errori” di cui siamo artefici nella percezione del mondo e di noi stessi sono semplicemente legati al fatto che osserviamo il mondo da un particolare punto di vista (il nostro) e ci aggrappiamo tenacemente a quelle piccole grandi certezze che ci rassicurano confermandoci in ciò che siamo e confinando il mondo per come ce lo rappresentiamo.
È per questo motivo che, in ambito clinico, nessuno riuscirà mai a cambiare il comportamento di un giocatore d’azzardo patologico “persuadendolo” del fatto che la sua condotta lo porterà alla rovina; né si riuscirà mai a “convincere” un fobico del fatto che la sua paura (qualsiasi essa sia) è infondata: non è in gioco la persuasione, bensì qualcosa di molto più profondo, che neanche il diretto interessato, spesso, comprende. Qualcosa che ha a che fare con il suo mondo emotivo, con la sua storia di vita, e con quei bisogni imprescindibili che tutti ci accomunano, in qualità di esseri umani.