L’uso della forza nelle relazioni
Nell’ultimo intervento abbiamo in qualche misura “sdoganato” la rabbia, emozione tanto vituperata soprattutto per il suo ruolo perturbante nelle relazioni. Accanto al suo potere distruttivo (se espressa in modo esplosivo e “subita” nella sua dirompenza) ne abbiamo infatti apprezzato anche la “forza amica” nel rendere evidenti e portare avanti le istanze personali di chi la sperimenta. Abbiamo cioè valutato anche il ruolo di “alleata” della rabbia nel fornire l’energia necessaria per affrontare le condizioni che non producono benessere.
Oggi sdoganiamo un altro aspetto che inevitabilmente entra in gioco nelle relazioni e che spesso viene guardato con diffidenza e sospetto: l’uso della forza. Cerchiamo cioè di osservare fino a che punto sia legittimo esercitare la forza, in una relazione o in un rapporto di coppia, e dove è invece opportuno lasciare spazio a strumenti meno conflittuali.
Quando la conflittualità di coppia o l’incomunicabilità supera livelli sostenibili è opportuno rivolgersi ad uno psicoterapeuta di coppia.
Prendiamo avvio da una distinzione importante: forza non è sinonimo di violenza, tutt’altro. Esprimere con decisione e con forza le proprie idee non vuol dire essere violenti, ma, semplicemente, credere in sé stessi, nel valore delle proprie opinioni e, paradossalmente, nell’importanza del rapporto in gioco. La violenza, al contrario, ha a che fare con l’impedire la legittima espressione delle posizioni altrui e con la delegittimazione sistematica dell’altrui punto di vista. Al contrario di quanto potrebbe apparire al primo sguardo, la violenza è quasi sempre legata alla fragilità e alla debolezza. E’ proprio chi non è in grado di sostenere le proprie posizioni argomentando, chi non regge la possibilità che possano esistere opinioni (legittime) diverse dalla sua, o chi non si sente all’altezza di un confronto che ricorre alla violenza per zittire il proprio interlocutore.
Ma tutto questo non ha a che fare con l’esercizio della forza. Proviamo a fare un esempio per delimitare con chiarezza il confine tra forza e violenza. Mi capita spesso, nella pratica psicoterapeutica, di ascoltare episodi di contrasto all’interno di una coppia o anche nell’ambito di un’amicizia. E altrettanto spesso, in alcuni di questi episodi, vengono portate argomentazioni di questo genere: “Non ho sostenuto la mia posizione per non litigare”, oppure “Ho preferito lasciar perdere per non rovinare la nostra relazione”, o “Non vale la pena mettere in discussione un rapporto per un’opinione”. Eppure, spesso, sono in gioco questioni importanti sotto le sembianze di piccoli avvenimenti della quotidianità.
Ebbene, le relazioni, quanto più sono profonde tanto più sono potenzialmente cariche di conflitti, nella misura in cui comportano una vicinanza estrema. Ma è proprio perché tengo ad una persona, compagno/a o amico, che è importante manifestare ciò in cui credo e far valere le mie posizioni. Il fatto che metta tutte le energie e la “forza buona” del mio persuadere in ciò che sostengo e che intendo fare dice del valore che la nostra relazione ha ai miei occhi, non è una minaccia.
Nei conflitti ciò che bisogna temere – ancora una volta – è l’evitamento, il non affrontare e lasciar “macerare” nell’indifferenza questioni centrali di un rapporto. L’esercizio della forza (non della violenza – ribadiamo) tutt’al più fa sì che emergano conflitti già esistenti, anche se sepolti, ma non ne crea di nuovi dal nulla.
Chiudiamo appoggiandoci a un gigante del Novecento, il filosofo della scienza Karl Popper. Quando, in un’intervista risalente agli ultimi anni della sua riflessione, gli si chiese: “Vale la pena morire per un’idea?”, Popper, da buon fallibilista, rispose: “No, perché quell’idea, come qualsiasi altra, potrebbe essere sbagliata. Ma in nome di quell’idea mi batterò finché qualcuno non mi mostrerà che non è corretta”.
Ecco ciò che intendo per un uso legittimo e benevolo della forza.