Cosa vuole dire “Ti Amo”?
In questo intervento ci concediamo una piccola digressione, tra psicologia e costume, relativamente all’uso che facciamo delle parole e al significato che attribuiamo loro. Partiamo dall’espressione d’amore per antonomasia: “Ti amo”. Ciò che diremo è però riferibile a qualsiasi espressione di cui facciamo uso, soprattutto se ha a che fare con sentimenti e stati emotivi.
Che cosa significa “Ti amo”? E che uso facciamo di questa espressione? – ci siamo chiesti. Domanda di centrale importanza nella vita di ciascuno se consideriamo il fatto che attorno alla vita affettiva, ossia all’amore, si gioca gran parte della partita della felicità. Prendo questo delicatissimo argomento un po’ alla larga, a costo di sembrare di andare fuori tema, partendo da uno dei padri del pragmatismo americano, Charles Sanders Peirce, che abbiamo già avuto modo di citare. Nella sua grandiosa riflessione sull’uso del linguaggio e sul suo significato è arrivato a definire un criterio molto chiaro e univoco: il significato di una parola sta in tutti gli abiti di risposta che quella parola mi induce ad assumere.
Detto in altri termini, molto più diretti e calati in concrete storie di vita, il significato di “Ti amo”, riferito alla persona che fa uso di quella espressione, sta semplicemente in tutto quello che le viene da fare ed è disposta a fare per la persona destinataria di questo apprezzamento. Ossia, che ruolo occupa nella sua mente, nei suoi progetti, in come spende il suo tempo e le sue risorse, a che cosa sarebbe disposta a rinunciare (e a che cosa rinuncia) per il suo – e solo suo – bene.
Ovviamente questo criterio molto pragmatico, quasi comportamentale, non è sufficiente a dar conto di tutto ciò che una persona prova nei confronti di un’altra. Entrano in gioco molti altri fattori. Il più importante di questi è costituito da tutti i temi di vita di ciascuno di noi. Faccio un esempio molto elementare: per un uomo che ha fatto la fame in periodo di guerra e ha un’attenzione quasi morbosa per il denaro, in rapporto alla storia da cui proviene, la difficoltà a fare certi tipi di regali ritenuti molto costosi o “inutili” alla propria compagna dice più della sua storia personale e delle difficoltà sue proprie, che del valore che quella donna ha per lui.
Fatte queste precisazioni assolutamente dovute, il criterio di Peirce ci permette però di avere un parametro molto diretto, nelle relazioni di coppia, per capire la reciproca importanza che ognuno riveste per l’altro. In questo modo ci si può confrontare calandosi nella vita concreta, nel significato che hanno tante piccole o grandi scelte della quotidianità, e che cosa diventa nel concreto quel “ti amo” attorno al quale si sviluppano spesso infinite incomprensioni. Diventa anche un modo per affrontare tematiche centrali nella vita personale e di coppia, come ad esempio la disponibilità ad aprirsi alle esigenze altrui, il senso che si attribuisce alla fiducia, il ruolo della fedeltà, la capacità di mettersi nei panni dell’altro, o, viceversa, di difendere le proprie legittime posizioni.
Su un piano esclusivamente personale lo stare ancorati alla vita concreta permette infine di difendersi dal più subdolo dei nemici, l’autoinganno, che anche nelle relazioni di coppia, o sociali in genere, gioca un ruolo centrale. Chiarisco anche in questo caso ciò che intendo con un esempio.
Qualche tempo fa ho seguito un imprenditore in carriera che aveva gravi difficoltà con la moglie soprattutto in rapporto al tempo che lui dedicava al figlio. Si è presentato con premesse che potremmo riassumere in queste espressioni: mio figlio è tutta la mia vita, per lui sarei disposto a fare qualsiasi cosa, mia moglie non se ne rende conto ma in cima a tutto c’è la mia famiglia…, e via dicendo. E’ arrivato poi il periodo natalizio. La recita di fine anno all’asilo del figlio, allora di 4 anni, cadeva proprio nel giorno di una riunione aziendale. Nulla di decisivo o importante, però sarebbe stato meglio esserci – mi riferisce lui.
Ecco, per noi questo micro aneddoto (la scelta tra la riunione e la recita del figlio) è stata l’occasione per chiarire quali erano le priorità che lui si dava. Non per come se le raccontava – perché su questo campo, come stiamo imparando ad osservare, è facile cadere nell’autoinganno – ma per come emergevano dalle scelte che concretamente faceva.
Lo scopo di tutto questo, in una psicoterapia, non sta ovviamente nel giudicare le scelte e darne una lettura etica – ognuno sceglie con i propri criteri e risponde personalmente delle proprie decisioni – ma nell’osservare più da vicino che cosa ci muove nel profondo, vedere come opera concretamente nella nostra vita e padroneggiarlo meglio, anziché subirlo inconsapevolmente.